Un focus su sbarchi e accoglienza

Un focus su sbarchi e accoglienza

Problemi e soluzioni secondo un esperto. Intervista a Franco Valenti

Per comprendere meglio come si sta evolvendo la situazione odierna di sbarchi e accoglienza Cas e Sprar, ho intervistato Franco Valenti, membro della commissione territoriale di Brescia ed esperto Sprar per l’Anci – Associazione Nazionale Comuni Italiani.

Lei è membro della commissione territoriale di Brescia e esperto Sprar per l’Anci. Prima di tutto, mi potrebbe spiegare il lavoro della commissione?

Quello che fa una commissione territoriale è ascoltare i richiedenti asilo per vedere se rientrano nei parametri per una forma di tutela internazionale. Il primo passo è valutare se hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. Altrimenti, si cerca di capire se possono ottenere una protezione sussidiaria oppure un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che viene rilasciata dalle questure.

Quali sono le figure che compongono la commissione?

C’è un rappresentante degli enti locali, uno della polizia di stato, uno degli uffici prefettizi e un membro dell’UNHCR (Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati ndr).

Da giugno o luglio di quest’anno, i commissari saranno selezionati tra chi ha vinto il concorso l’anno scorso. Questa è una novità introdotta dal decreto Minniti per sostituire i rappresentanti degli enti e della polizia di stato.

Media, professionisti e professioniste e associazioni impegnate nel settore dell’accoglienza denunciano i ritardi delle chiamate alle commissioni. Quali dovrebbero essere e quali sono le tempistiche a livello nazionale?

Non c’è una tempistica definita e non esiste una media nazionale. L’attesa dei richiedenti dipende da molti fattori: come lavorano le commissioni, il numero e la tipologia dei richiedenti in attesa e il lavoro delle questure.

C’è una media nazionale degli esiti positivi e dei dinieghi delle richieste di asilo? E del suo territorio di competenza?

La media nazionale degli esiti positivi è del 61%, ed è una media abbastanza alta rispetto a quella europea. Pensi che in Germania e altri paesi del nord Europa vengono accettate solo persone che provengono da paesi in guerra, Siria e Eritrea per esempio. In Italia invece, con le altre due forme di protezione, accettiamo anche persone provenienti dall’Africa subsahariana.

Un altro argomento che ritorna nei racconti di operatrici e professionisti impegnati nell’accoglienza è la scarsa informativa legale che i e le richiedenti ricevono nei Cas. Si parla fin troppo spesso di uomini e donne poco consapevoli del proprio status giuridico e della funzione della commissione. Da commissario territoriale, le è capitato di osservare questo fenomeno?

A Brescia non capita spesso, e comunque non ai livelli che lei descrive. Su questo territorio ci sono strutture abbastanza organizzate, che si occupano anche dell’informativa legale. Certo, chi viene ospitato nei Cas dentro alberghi o trattorie non ha un accompagnamento in questo senso. Ma in termini di numeri non sono situazioni così rilevanti. Comunque, questo fenomeno porta a ribadire che bisogna investire nella crescita della rete Sprar portata avanti dall’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani ndr). Questo progetto provvede a diffondere le competenze utili a chi lavora nell’accoglienza.

Qual è il suo compito come esperto Sprar per Anci?

Andare in diverse città e cercare di stimolare le amministrazioni locali ad aderire alla rete Sprar, con l’intento di superare i Cas. Mostrare i vantaggi di una gestione che vede gli enti locali attori privilegiati dell’accoglienza. In secondo luogo, dare supporto ai comuni che intendono fare il passaggio da Cas a Sprar.

Qual è il numero totale dei e delle richiedenti asilo ad oggi in Italia? Quanti sono dentro l’accoglienza Cas e Sprar e quanti fuori?

In accoglienza sono in totale circa 200 mila, di cui 33 mila negli Sprar e i restanti nei Cas. Non abbiamo invece i dati riguardanti chi è fuori dall’accoglienza e sta progettando di proseguire il viaggio verso altri paesi europei (chiamati transitanti ndr).

In quanto esperto Sprar, cosa pensa del fatto che la stragrande maggioranza dell’accoglienza è gestita da Cas? Quali sono le ragioni?

Fondamentalmente il problema è la reticenza dei comuni ad aprire Sprar. Per questo li incontriamo, per spiegare loro che potrebbero intervenire direttamente sulle decisioni e quindi avrebbero una maggiore governance sul territorio e sul fenomeno.

Qual è l’incidenza dei e delle richiedenti asilo sulla popolazione italiana in termini percentuali? Si attesta sul 2,5 come previsto dal piano concordato tra Anci e Minniti?

Non abbiamo dati sull’effettiva percentuale, quella del 2,5‰ è la cosiddetta “clausola di salvaguardia” per i comuni che decidono di aprire uno Sprar. Al contrario, i comuni che si vedono aprire dei Cas sul proprio territorio, non hanno nessun controllo sulla quantità di richiedenti. Nel caso dei Cas, le decisioni rimangono nelle mani delle prefetture.

Cosa ne pensa della mancanza di trasparenza rispetto ai dati dell’accoglienza Cas?

I Cas hanno numeri variabili. È in atto un processo di svuotamento dei Cas: diminuiscono gli arrivi già dal 2016 e pian piano chi ottiene la protezione internazionale sta passando all’accoglienza Sprar.

Mi spiego meglio. Insieme ad associazioni di legali che si occupano della questione, abbiamo rilevato la mancanza di dati certi sugli enti gestori dei Cas, la quantità di centri sparsi nei territori e del numero di richiedenti in ogni centro.

Per quanto riguarda questi dati bisogna cercare sui siti delle prefetture, visionare i bandi di concorso. C’è da dire che dal Ministero dell’Interno si sta insistendo molto sulla miglioria dell’accoglienza nei Cas. E il Ministero ha i dati.

Le ricerche sui siti delle prefetture non hanno portato risultati. E neanche le richieste di accesso agli atti fatte in modo capillare. Rimane aperta la domanda…

Anche per la maggiore trasparenza, la rete Sprar dà più garanzie.

Quali sono le criticità che da esperto rileva nel sistema di accoglienza?

È necessario lavorare all’autonomia del richiedente una volta uscito dall’accoglienza. Parlo di ricerca abitativa, anche di soluzioni alternative agli appartamenti, e di formazione professionale per l’inserimento lavorativo. Altrimenti abbiamo un esercito di persone non preparate che può aspirare solo a raccogliere i pomodori, per capirsi.

In questo senso, gli Sprar hanno il dovere di fare un bilancio delle competenze e una formazione professionale mirata. Nelle realtà piccole è più facile il lavoro, è possibile fare accordi mirati con le imprese sociali.

Infine, quali sono secondo lei le soluzioni che andrebbero messe in campo per migliorare il sistema di accoglienza? Sia in termini di legislazione che di prassi messe in campo dagli enti gestori.

Sicuramente c’è bisogno di personale più preparato e professionale, di competenze multidisciplinari: antropologi ed etnopsichiatri per esempio. Abbiamo un’enorme potenzialità professionale da realizzare nel nostro paese.

C’è da riflettere anche sulla possibilità di investire sul rimpatrio assistito. Mettere le persone nelle condizioni di essere autonome e di non essere costrette a ripartire dal proprio paese.

Non le pare che i rimpatri siano un modo di mettere in atto i respingimenti?

Assolutamente no. Rimpatrio assistito significa non lasciare i e le richiedenti a fare gli accattoni per strada. Significa dare loro delle competenze da poter investire nel proprio paese di origine, insieme a una dote economica da poter investire.

Ha parlato di una dote economica? Cosa intende?

Ogni richiedente asilo costa circa 30.000 euro per tutto il periodo di accoglienza. L’idea è formarli e dare loro 8.000 euro per aprire piccole attività una volta rimpatriati. Per noi è un modo per mettere a reddito i soldi investiti, e dare loro la possibilità di una vita dignitosa.

Invece in termini legislativi, cosa andrebbe cambiato?

In termini legislativi il problema è l’Europa. Il trattato Dublino III va ritoccato. Sarebbe necessario poter chiedere a tutti i nuovi arrivati dove vogliono andare, se hanno parenti o amici da raggiungere in altri stati europei. Questo cambiamento avrebbe costo 0 per gli enti, oltre a garantire la libera mobilità a chi arriva. La revisione di Dublino III ridurrebbe dell’80% il costo dell’accoglienza in Italia.

E cosa ne pensa del decreto Minniti?

L’Italia non ha nessuna possibilità di intervento a sud della Libia, zona già controllata dalla Francia. Il numero di arrivi si è ridotto fondamentalmente per le notizie che giungono nei paesi di partenza. Ormai è noto lo sfruttamento di cui sono vittime le persone in viaggio in Africa, come è noto che l’accoglienza in Europa non è così positiva.

Per quanto riguarda il rinnovo del sistema delle commissioni, bisogna vedere se l’Italia è realmente in grado di mettere in atto un piano che dia risposta alle vulnerabilità che non sono legate a motivi bellici. Parlo di diritto all’integrazione, diritto alla salute, allo studio, questioni aderenti all’articolo 10 della Costituzione.

Il numero degli sbarchi quindi non è collegato all’accordo Italia-Libia? Cosa pensa di questa mossa?

L’accordo Italia-Libia è già fallito. Non ci sono interlocutori istituzionali diretti, ma solo privati che controllano diverse aree del paese. Gli sbarchi sono ridotti perché le persone iniziano a essere informate, delle carceri libiche e di quello che avviene in Italia. Gli accordi come questo diventano forme di ricatto, lo abbiamo visto anni fa con la Tunisia. Finisce che noi finanziamo questi stati senza nessuna efficacia.

 

 

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