Un altro Cas è possibile

Un altro Cas è possibile

Dove l’accoglienza non è un’emergenza. Intervista a Fabrizio Massara, Presidente della cooperativa Ermes

Un altro Cas è possibile. Abbiamo ascoltato i racconti di chi ha conosciuto da vicino i disservizi dell’accoglienza straordinaria (qui, qui e qui). Ciò ci ha spinte a cercare l’esistenza di Cas dove l’accoglienza è pianificata e in relazione con il territorio. Un’accoglienza che non ha niente di straordinario, in un contesto in cui straordinario fa rima con emergenza. Abbiamo così conosciuto cooperative che, dopo anni di lavoro con persone che vivono differenti disagi, decidono di approcciare l’accoglienza dei e delle migranti. E lo fanno con professionalità e spirito di cooperazione sociale.

Di ciò abbiamo parlato con Fabrizio Massara, Presidente della cooperativa romana Ermes, che gestisce due centri di accoglienza straordinaria nella bassa Sabina.

Mi descrivi i centri che avete in gestione?

Sono due. Uno a Forano, in provincia di Rieti. È aperto da novembre 2014 e ospita 30 uomini adulti. L’altro è a Nerola, in provincia di Roma. Questo è stato aperto a giugno 2016 e ci sono 23 uomini adulti.

Che tipo di strutture ospitano i richiedenti?

Quella di Forano è una struttura alberghiera, un piccolo albergo. Quella di Nerola invece è una villetta suddivisa in quattro appartamenti. Uno per l’ufficio e i servizi e gli altri tre per le abitazioni, la cucina e la mensa.

Come sono distribuiti i richiedenti asilo all’interno degli appartamenti?

Sono otto per appartamento, ogni appartamento è su due livelli. Per la loro distribuzione ci atteniamo ai parametri del programma quadro che indica la metratura per ospite.

Ci sono donne nelle vostre strutture?

Avevamo adibito i centri per ospitare donne ma l’approccio emergenziale non permette di pianificare concretamente il lavoro. Quando le strutture erano predisposte e attendevamo l’arrivo di persone, la Prefettura ci ha inviato maschi adulti. Per un certo periodo abbiamo avuto anche una famiglia a Forano, ma la coabitazione non era facile. Una donna in mezzo a 27 uomini adulti non permetteva una buona gestione.

Quali servizi seguivate prima di iniziare con l’accoglienza dei richiedenti asilo?

Ne abbiamo seguiti diversi di natura sociale, e continuiamo a farlo. Asili per l’infanzia, case famiglia per giovani adulti in difficoltà, servizi in gestione per municipi di Roma, anche con i Rom.

Con quale spirito avete avviato questi centri di accoglienza?

Abbiamo iniziato a lavorare con i migranti basandoci su due principi. Il primo è il tentativo di avvicinare la qualità dei Cas a quella degli Sprar. L’assolvimento dei bisogni essenziali non è sufficiente, è necessario creare tessuto sociale e integrazione. In questo senso, il doppio binario dell’accoglienza ha senso solo in un’ottica emergenziale, dovrebbe esserci accesso al modello Sprar immediatamente. (Abbiamo visto in un precedente post come l’accoglienza sia suddivisa in una prima e in una seconda fase, dove i Cas costituiscono una specie ibrida poco efficace ndr).

Il secondo principio riguarda la dimensione dei centri: un massimo di trenta persone in struttura unica, non divisi in appartamenti. Può sembrare lontano dall’ottica dell’accoglienza diffusa, ma per noi garantisce il rapporto quotidiano tra richiedenti, operatori e operatrici dell’accoglienza. Costituisce il primo passo per un percorso educativo efficace.

E quali sono invece gli obiettivi che vi siete posti?

Sin dal loro arrivo in struttura, il principio che muove l’accoglienza è l’autonomia dei ragazzi. Prima di tutto, attraverso i corsi di italiano e di integrazione. Metterli nelle condizioni di inserirsi nel tessuto sociale della cittadina che li ospita è fondamentale. Un passaggio importante è costituito dall’inserimento lavorativo, dal portarli ad avere un reddito.

Come avete improntato i corsi di italiano e per l’integrazione?

Abbiamo privilegiato i corsi in sede, sempre nell’ottica di instaurare delle relazioni con i ragazzi. Conoscendoli direttamente e approfonditamente è possibile pensare per loro dei percorsi individualizzati. Mandiamo al Cpia (centri di formazione per adulti) solo quelle persone che possono prendere il titolo delle scuole medie.

E per quanto riguarda l’integrazione lavorativa, come operate?

I Cas che gestiamo sono in bassa Sabina, un luogo a vocazione agricola. La prima cosa su cui ci siamo concentrati è stata la costituzione di una rete tra aziende agricole. Attraverso questa rete, i ragazzi possono accedere con più facilità al mercato del lavoro sul territorio.

Abbiamo creato occupazione anche grazie al progetto Garanzia giovani. Ragazzi che sono andati a fare uno stage in un’azienda agricola, poi sono stati assunti con contratto stagionale. Così si è stabilito un processo virtuoso. Alcuni si sono presentati anche in autonomia, senza passare per Garanzia giovani. Le aziende agricole, avendo già avuto richiedenti in tirocinio, hanno assunto altri ragazzi con contratto per la raccolta delle olive dell’inverno scorso.

Qual è la vostra politica in merito all’assistenza sanitaria?

Il bando di assegnazione dei centri di accoglienza prevede dei medici in struttura. La richiesta di un medico di struttura va contro la nostra mission. Siamo convinti che sia necessario integrare i ragazzi nel territorio a tutti i livelli. Invece di avere un medico di struttura, che non interrompe il circolo della dipendenza ma lo favorisce, preferiamo che i ragazzi vadano dal medico di base e all’ospedale per imparare ad interfacciarsi con le persone e con il sistema sanitario nazionale. Se c’è necessità li accompagniamo ma facciamo in modo che possano andare da soli.

Il problema è che la maggior parte delle prefetture non comprende le reali necessità. Qui il problema è nell’interpretazione delle norme. La burocrazia non tiene conto dei casi specifici, soprattutto quando ha a che fare con grandi numeri di persone da gestire.

In quale modo erogate il cibo?

Non abbiamo un servizio di cathering, che generalmente non garantiscono un buon servizio. Abbiamo quattro cuoche di struttura, cerchiamo di rispettare gli standard.

Rispettate la necessità dei richiedenti, anche segnalata dalle norme europee, di mangiare con cadenza regolare il cibo del proprio paese?

Le cuoche cucinano nel rispetto delle loro tradizioni, il riso lo cucinano come lo fanno loro, preparano dei piatti unici. Anche la pasta, certo. A Forano sporadicamente cucinano i ragazzi.

Come amministrate i 35 euro al giorno per richiedente asilo?

Gran parte della somma è assorbita dal costo del personale. Il resto da tutte le necessità che richiede il servizio di accoglienza: cibo, utenze, a Nerola l’affitto degli appartamenti. Poi le spese sanitarie e gli spostamenti, i biglietti del bus, abbonamenti del treno.

Pagate i trasporti ai richiedenti?

Sì, mettiamo a disposizione una quota mensile che permette a ognuno di andare a Roma e di spostarsi sul territorio.

Qual è stata l’accoglienza della cittadinanza di Forano e Nerola nei confronti dei ragazzi?

Tutto sommato è stata piuttosto positiva. A Forano, appena arrivati, abbiamo fatto delle iniziative di informazione rivolti alla cittadinanza su come funziona l’accoglienza sfatando molti miti, per esempio sui 35 euro a persona. Qui abbiamo avuto la prova che la comunicazione con l’esterno è centrale.

A Nerola abbiamo avuto l’ostilità della sindaca di centro-destra e la fazione fascista locale. All’inizio si sono registrati atteggiamenti molto aggressivi. Questo gruppo ha chiesto un incontro con noi per avere dei chiarimenti sul nostro lavoro. La cosa grave è che la sindaca ha fatto da mediatrice tra i fascisti e noi, accogliendo le loro istanze. Noi ci siamo resi disponibili all’incontro nella misura in cui avesse avuto una veste istituzionale. Così è stato: dopo l’incontro la tensione si è risolta e non ci sono stati più né proteste né altri problemi. Alla fine l’impatto dei ragazzi sul territorio è stato positivo: hanno lavorato alla raccolta delle olive e si sono impegnati nei lavori socialmente utili.

Qual è la tua opinione riguardo la “clausola di salvaguardia” che in teoria pone il tetto di richiedenti asilo al 2,5‰ su ogni territorio e che non sempre viene rispettata?

Il 2,5‰ è una cifra che potrebbe assorbire gli arrivi dei migranti se tutti i comuni si impegnassero nell’accoglienza. Ma così non è, e quindi si pone il problema dei centri sovraffollati in qualche comune e di molti richiedenti che restano fuori dal sistema di accoglienza. È necessario puntare ai numeri piccoli, sia dentro i centri che per il numero di centri gestiti da ogni cooperativa. In questo senso, dovrebbero essere previsti degli incentivi non solo per gli Sprar ma anche per i Cas. Il problema è che le linee guida del Ministero degli Interni privilegiano le cooperative che possono accogliere grandi numeri di persone. 

Come funziona la rendicontazione a cui ora sono obbligate anche le cooperative che gestiscono centri di accoglienza straordinaria introdotta dal decreto Minniti-Orlando? Qual è la tua opinione in merito?

Essendo un progetto “ad anticipazione” noi ogni mese dobbiamo dimostrare come abbiamo speso il pro die pro capite (la somma al giorno a persona ndr). Dobbiamo  dimostrare le spese fino all’ultimo centesimo percepito con buste paga e fatture. Non capisco di quale cambiamento parli.

La rendicontazione obbligatoria per i Cas è una novità introdotta dal decreto Minniti-Orlando. Credo che segni un grosso cambiamento, basta osservare le notizie quotidiane di fatture false emesse dalle cooperative e rendicontazioni mai presentate alle prefetture.

Noi abbiamo sempre fatto le rendicontazioni sia a Forano che Nerola. Non capisco a cosa ti riferisci, noi se non presentiamo la rendicontazione non riceviamo i soldi dalla Prefettura.  

Quali problematiche rilevi nel sistema di accoglienza così com’è strutturato?

Esiste un problema di dipendenza all’interno di questo modello di accoglienza. È un modello che privilegia l’assistenzialismo senza un progetto superiore. Ciò procura l’effetto “barbone”, cioè quando i ragazzi escono dall’accoglienza non sono assolutamente autosufficienti. La “dipendenza da accoglienza” conduce alla possibilità reale di creare dei senza fissa dimora, persone più fragili rispetto all’incontro con fenomeni di microcriminalità.

Un’altra problematica connessa è il fatto che molti ragazzi non arrivano con un progetto migratorio forte. Prima di tutto ci vuole la loro volontà di darsi da fare. Nel nostro lavoro educativo avvisiamo i ragazzi che non sono bene accolti dalle comunità, li prepariamo a quello che c’è fuori. Per modificare le relazioni è necessario che la cooperativa faccia un lavoro politico sul territorio. Per questa ragione a Forano abbiamo fatto gli incontri aperti alla cittadinanza, dove abbiamo spiegato in modo trasparente i finanziamenti, i costi, gli obiettivi e le pratiche messe in campo. Inoltre, abbiamo firmato un protocollo d’intesa con la Prefettura di Roma e il comune di Nerola per far fare lavoro socialmente utile ai ragazzi. La cittadinanza è contenta perché li vede utili e non li vede ciondolare. I ragazzi sono stimolati a questo tipo di lavoro dalla prospettiva di presentarsi meglio in commissione.

Quindi tu mi dici che il processo d’integrazione avviato durante il periodo di attesa conta di fronte alla commissione territoriale?

Sì, ne abbiamo avuto prova. Dipende certamente dalla commissione, ma in ogni caso è un tentativo che vale la pena fare. Il lavoro e le prove di integrazione predispongono bene le commissioni nei loro confronti.

Lascia un commento

Chiudi il menu