Intervista a Chiara Caucci, psicologa impegnata nell’accoglienza
Una delle problematiche da affrontare con i e le richiedenti asilo è la salute mentale. Una questione su cui l’informazione anti immigrazione sta banchettando, distorcendo i termini del discorso. Sempre più spesso, infatti, si sente parlare in toni allarmistici di malattia mentale. Lo scopo è ovviamente rinforzare pregiudizi e paura. Il 23 marzo il quotidiano Libero titolava “Un richiedente asilo su due è matto da legare” (articolo di cui, ad oggi, non c’è traccia nel web). Tesi smontata dall’associazione Carta di Roma, che parla di disturbi mentali (non malattie psichiatriche) per chi ha subito traumi, nel paese di origine o nel viaggio verso l’Europa. Secondo gli studi, infatti, ansia, depressione e disturbo post-traumatico da stress sono i principali disagi che possono colpire i e le richiedenti asilo. Complice un’accoglienza solo di facciata, in cui l’indifferenza e l’incompetenza non aiutano a mettere radici e a superare i traumi passati. Le difficili, a volte drammatiche, condizioni di viaggio si sommano, infatti, alla mancata assistenza psicologica all’arrivo in Italia. I giornali che producono notizie sensazionalistiche non tengono assolutamente in conto la “catena di violenze” a cui queste persone sono sottoposte e che può minare la loro stabilità. Questioni che possono essere affrontate solo con una strategia precisa e con personale qualificato.
Per uscire dalla logica allarmista, ne abbiamo parlato con una psicologa, la dottoressa Chiara Caucci, che da tempo lavora nel campo dell’assistenza psicologica per i e le richiedenti asilo in accoglienza.
I traumi dei e delle migranti
Caucci spiega che la prima questione da affrontare con i e le migranti in arrivo è il trauma e le conseguenze che esso può provocare. A dispetto di chi fa differenza tra cosiddetti “rifugiati veri” e “migranti economici”, come se gli ultimi fossero senz’anima, il trauma principale è uguale per tutti, la perdita. «Perdita dell’affetto dei propri cari, della lingua madre, della cultura d’origine, usi, costumi, abitudini, dello status sociale, del paesaggio, della propria terra». E dei sapori. «Per questa ragione si deve alternare il cibo tradizionale a quello nuovo, per agevolare il passaggio». Questa la risposta della dottoressa, quando le chiedo conferma dell’esistenza di una strategia “alimentare” per aiutare l’integrazione di queste persone. Alternare piatti della propria cultura a quelli della tradizione italiana è l’esempio di una pratica che può rendere meno doloroso il passaggio alla nuova cultura.
È lo sradicamento totale a generare il primo trauma. Uomini e donne si mettono in viaggio con questa perdita. Ma la perdita talvolta viene “costruita” nel tempo. Arrivando così al secondo livello, quello del trauma migratorio. In un viaggio che può richiedere anni: «i e le migranti lavorano in diversi paesi, mettono radici e le levano in una totale incertezza della sopravvivenza». E la catena di violenze cui vengono sottoposti, pensiamo ai campi detentivi in Libia e al trattamento subito dai trafficanti di esseri umani, è un elemento decisivo.
Spiega Caucci: «noi abbiamo un’idea più “soft” del trauma rispetto a quello che vivono loro. Associamo il trauma alla perdita di una persona cara, a un licenziamento, o a un terremoto. Loro subiscono la perdita di qualcosa che è ancora più centrale, fondamentale: la fiducia nell’essere umano. Perché sperimentano il fatto che l’umanità genera sofferenza. È un trauma più radicale perché mette in crisi la base della socialità, la fiducia nell’altro. In questo, ciò che vivono, è paragonabile ai campi di sterminio».
Queste esperienze possono minare le «certezze e convinzioni che fino a quel momento venivano considerate imprescindibili e immediate, aprendo la strada a un cambiamento pressoché stabile delle proprie rappresentazioni». La credenza relativa all’esistenza della benevolenza dell’uomo viene meno modificando quindi il modo in cui la persona si pone in relazione al mondo». Il cambiamento del rapporto tra sé e il mondo per un migrante viene sintetizzato da Caucci: «io sono in pericolo, l’uomo buono non esiste, il mondo è minaccioso e pericoloso, non c’è nessuno di cui mi possa fidare, l’altro è pronto a ingannarmi, ferirmi, tradirmi, a procurarmi sofferenza».
Un’accoglienza che non accoglie
Una catena di violenze che mina la fiducia nell’altro e che prosegue una volta approdati in Italia. Ed è qui che si produce il terzo livello del trauma, quello post migratorio «Arrivano in Italia con l’aspettativa della salvezza e invece subiscono una “ritraumatizzazione secondaria”. L’accoglienza traumatizza nuovamente perché non risponde alle aspettative attese». Difficoltà “oggettive” come quelle linguistiche, le aspettative irrealistiche, la perdita di status e l’iniziale inoccupazione potrebbero essere superate con dei percorsi mirati in una logica inclusiva portata avanti sia dai centri d’accoglienza che dalla società. Il punto è far sentire queste persone comprese e accolte. Invece i problemi si aggravano per le «condizioni di accoglienza inadeguate, le cattive condizioni abitative, nutrizionali, sanitarie, il sovraffollamento abitativo, l’assenza o l’inadeguatezza del supporto sociale». Tutto ciò acuisce «la minaccia del fallimento del progetto migratorio».
Un’accoglienza che non accoglie, dunque. Secondo la dottoressa, la mancanza di competenza specifica, l’assenza di una mission condivisa e di una supervisione adeguata producono un sistema «assistenzialistico, un’organizzazione punitiva ed espulsiva e, alla fine, uno stato di abbandono e deprivazione». «Loro sono tanti, e arrivano con una serie di richieste a cui non si riesce a rispondere. A causa dei grandi numeri e della mancanza di strumenti per affrontare la situazione, lo stato si dimostra in sofferenza nel progettare un’accoglienza seria».
Alla “ritraumatizzazione secondaria si aggiunge «la stratificazione dei traumi del passato. I richiedenti asilo hanno difficoltà a narrare le proprie storie. Possono avere amnesie, la mente cerca di andare avanti». Per sopravvivere, cerca di rimuovere i ricordi dolorosi. «Ci sono esperienze che vengono isolate, restano nascoste, come se la persona non avesse consapevolezza di quanto accaduto. La narrazione del viaggio in mare, per esempio, avviene spesso senza dettagli, sembra avvenuta in un tempo contratto».
Ma quale malattia mentale?
«I disturbi d’ansia, dell’umore, dell’adattamento, paura e rabbia, il disturbo post-traumatico da stress» sono le risposte più frequenti. I disturbi psicotici sono meno frequenti. Si sviluppano in persone con delle vulnerabilità profonde e nuove esperienze traumatiche possono favorirne l’insorgenza. «I disagi psichici vengono principalmente espressi attraverso il corpo. La mente e il corpo sono come separati, il corpo è fermo a quel trauma e la mente fatica a dire al corpo che è salvo». «Le persone che hanno un disturbo correlato a un trauma possono presentare uno scompenso dell’arousal, cioè il livello di attivazione fisiologica. La persona può oscillare tra attivazioni eccessive e un calo importante dell’arousal. Il primo, detto di iper-arousal, è uno stato di iper-vigilanza che generalmente si manifesta con allarme, incubi notturni, ricordi intrusivi, ansia generalizzata, panico, sintomi somatici. tensione muscolare, tendenza all’azione e all’aggressività. Il secondo stato, detto ipo-arousal, presenta sintomi quali depressione, amnesia, perdita di interesse, ottundimento emotivo».
Problematiche e interventi possibili
Parlando dei possibili interventi nel trattare questi casi, Caucci mi riporta le principali problematiche da affrontare. I primi problemi sono legati alla difficoltà come psicologa di essere riconosciuta come una figura autorevole. «Prima di tutto perché donna, poi questo ruolo non è quasi mai chiaro, alcuni non lo conoscono, altri pensano a qualcosa di grave. Possono relazionarsi in maniera seduttiva e confondere il sentirsi accolti e compresi dopo tanto tempo. Ma sta all’abilità del professionista mettere una distanza accogliente che permetta di svolgere il lavoro. Oppure possono testarti in continuazione con infinite richieste per capire se si possono fidare o meno. Reclamano una serie di bisogni legittimi frustrati e negati e tu non puoi fare miracoli».
Un’altra questione è la progettualità fantasiosa che i e le migranti hanno in relazione al progetto migratorio. «Cambiare l’età e il nome all’arrivo in Europa è una pratica legata alla fantasia di rifarsi una vita da zero. I documenti rappresentano la possibilità di avere una nuova identità: non sei più quello che eri ma non sei ancora nessuno. Culturalmente il documento è un segno di riconoscimento. Grazie ad esso puoi reinventarti completamente. Per questo è fondamentale che gli operatori lavorino a far rientrare i e le richiedenti in contatto con la realtà. Devono aiutarli a riconoscere le proprie risorse e a utilizzarle. Devono aiutarli a ricucire il passato con il presente».
Tuttavia, il problema principale sta nell’affrontare la diffidenza che si alimenta nel tempo e che non si interrompe a causa della cattiva accoglienza. In alcuni centri di accoglienza, per esempio, non mancano le minacce per evitare le possibili proteste dei e delle richiedenti asilo. «La paura, la percezione della minaccia non finisce mai: se non fai questo finisci in prefettura, non ti diamo il pocket money. Queste persone non possono fidarsi, anche per queste ragioni è difficile il lavoro».
La ricostruzione del trauma
Questo lavoro è accompagnato dal tentativo di ricostruire i traumi ripetuti. «Cerco di fare dei colloqui, per riconoscere il trauma e per attribuire un significato nuovo all’esperienza vissuta». Tuttavia, prosegue Caucci, «non è consigliato scavare troppo su quanto accaduto. Potrebbe risultare pericoloso perché non sai se hai il tempo per supportare la persona nel contenere il peso di quanto emerge. Caucci fa riferimento ai tempi imprevedibili dell’accoglienza. Centri di accoglienza non riconfermati, richiedenti asilo trasferiti all’improvviso o personale continuamente diverso non garantiscono la possibilità di pianificare il supporto psicologico. La psicologa intervistata, per esempio, ha dovuto lasciare il posto di lavoro perché non veniva pagata. «Bisogna stare attenti perché parlare del trauma potrebbe essere più una necessità della psicologa che della persona in carico. Ti devi chiedere: “tu che cosa puoi fare oggi?” devi trovare il modo di aiutarli nel presente».
La ricerca del posto sicuro
Risulta quindi importante aiutarli a individuare, riconoscere e utilizzare le proprie risorse interiori e a crearne delle nuove. «Ci vogliono mesi per conquistare la loro fiducia, fargli capire che non vuoi danneggiarli». Fortunatamente non ci sono solo i fattori che determinano la traumatizzazione, ma anche elementi di resilienza, capacità interiori di adattamento e di resistenza nelle circostanze difficili. «Autoregolazione emotiva, capacità di adattamento e di prendere a modello altre persone, salute fisica, livello di istruzione» sono alcuni degli elementi su cui si può lavorare in modo positivo per rintracciare, insieme ai e alle richiedenti asilo, le loro risorse. «Quando esprime una sofferenza, puoi chiedere alla persona come ha fatto nel passato a risolvere qualcosa di simile, come ha affrontato la rabbia, la tristezza». Si può così riattivare quella capacità di risolvere le situazioni problematiche.
Accanto a ciò, una delle pratiche possibili è la “ricerca del posto sicuro”. «È un’esperienza molto bella e molto forte, che può produrre dei benefici. E’ una tecnica di immaginazione che aiuta a scoprire dentro di sé un luogo sicuro. Si fa in piccoli gruppi, in cerchio». Una tecnica di rilassamento che crea uno spazio mentale simile a un rifugio, un luogo rilassante come un prato, o un panorama dell’infanzia, da visualizzare mentalmente e dove “tornare” nei momenti di stress per recuperare la calma. «Chiedo loro se preferiscono occhi chiusi o aperti: sarebbero preferibili gli occhi chiusi, ma per alcune persone è un problema, perché a occhi chiusi possono riattivarsi le fantasie persecutorie. Alcuni fanno fatica a costruire questo posto. Una volta un ragazzo mi ha detto: “il mio posto sicuro sono io che sto correndo perché mi stanno inseguendo”. Ciò dimostra che per molti il concetto di sicurezza è cambiato per la perdita di certezza nell’umanità. Corro perché sto fuggendo, e sto fuggendo perché mi vogliono fare del male. Questo non è un posto sicuro, ma il perpetuarsi della minaccia. In questi casi, li accompagno in un posto costruito da me, spesso propongo come posto al sicuro il gruppo in cui stanno imparando la pratica. Ho “accompagnato” questo ragazzo affinché il posto sicuro diventasse quel luogo insieme. “Se ti fa piacere prendi questo posto, dove ci sono persone note che ti vogliono bene, che stanno condividendo questo momento con te e di cui puoi sentire la familiarità”. È preferibile condurlo nel qui e ora, altrimenti in un prato, devi conoscere le loro tradizioni ed esperienze per capire quale potrebbe essere un luogo sicuro. Il mare, per esempio, per chi ha fatto il viaggio in un barcone potrebbe non esserlo affatto. Gli chiedi se quello in cui è, dove lo hai condotto è un luogo sicuro. Se ha i muscoli contratti non lo è certamente. Il posto sicuro lo ha con sé e può tornarci ogni volta che vuole, in questo modo diventa una risorsa interiore».
Caucci conclude raccontandomi che nell’ultimo Cas in cui ha lavorato ha potuto fare solo tre incontri per la ricerca del posto sicuro. Dopo si è licenziata, non ricevendo gli stipendi da parte dell’azienda per cui lavorava. Uno dei ragazzi con cui ha portato avanti il piccolo gruppo di ricerca del posto sicuro, salutandola, l’ha ringraziata per il lavoro fatto nel centro: «mi disse mi spiace che te ne vai ma sono contento perché mi hai lasciato il mio posto al sicuro dove posso tornare ogni volta che voglio». Chiara Caucci ci ha mostrato l’esempio di un prezioso intervento per la salute mentale dei e delle migranti che, date le condizioni di lavoro, è solo una goccia nel mare. Mentre, per garantire degli effetti concreti e in larga scala, dovrebbe essere previsto in un piano strutturale.