Sfatiamo il mito dei 35 euro a migrante

Sfatiamo il mito dei 35 euro a migrante

Ieri sono stata a San Bonifacio, alla presentazione di Voi sapete, il libro di Giuseppe Civati che è anche una campagna. Un atto di accusa verso i “poteri forti” che si fanno scudo delle atrocità che si compiono in Libia per fermare la supposta invasione di chi fugge da guerra e miseria. E, soprattutto, un appello a quel senso di umanità che sta cedendo il passo all’indifferenza.

La prima domanda che è stata posta nel dibattito è su i leggendari 35 euro: ma davvero un migrante costa 35 euro al giorno?! Ci si dà un bel daffare a smontare la propaganda di destra che da anni urla che i richiedenti asilo “guadagnano” 35 euro al giorno. Semplicemente non è così (come non è vero che vivono in hotel di lusso). Le cooperative che gestiscono i centri di accoglienza affrontano i loro costi con (circa) 35 euro al giorno per migrante.

Con questi soldi l’ente ci paga tutto: l’affitto della struttura e la sua manutenzione, gli stipendi dei e delle dipendenti, le bollette, il cibo, il vestiario, le visite mediche e i farmaci. Nella spesa rientrano anche i corsi di italiano, per l’integrazione e per l’avviamento al lavoro. Nelle tasche dei ragazzi e delle ragazze finiscono tra i due e i due euro e mezzo al giorno per le spese minute.

Con circa 1.000 euro al mese a ogni richiedente asilo vengono garantiti i bisogni primari, la salute fisica e un monitoraggio psicologico, vengono spiegate le tradizioni italiane e la lingua e viene dato aiuto nella ricerca di un lavoro. Sembrano ancora troppi?

Propongo una riflessione “più realista del re”. Dove finiscono questi soldi? L’affitto dello stabile è pagato a un proprietario di immobile. Italiano. Il cibo è acquistato da fornitori e cucinato da personale. Tutti italiani. Le professionalità (l’operatore sociale, la psicologa, l’educatore e l’insegnante di italiano) sono messe in campo da un personale. Anch’esso italiano. La stragrande maggioranza dei 2,5 euro al giorno i ragazzi li spendono in ricariche telefoniche, cibo e vestiario non “essenziali”, giocattoli per chi ha bambini piccoli.

Quelli erogati dallo Stato e dall’Unione Europea sono soldi che restano qui e che, come recita uno slogan di qualche tempo fa non proprio di sinistra, “fanno girare l’economia”.

Va tutto bene così allora? Purtroppo no. Queste sono le condizioni ideali, il modo in cui alcune cooperative e alcuni centri di accoglienza funzionano.

L’approccio emergenziale ha fatto sì che iniziassero a occuparsi di accoglienza enti disinteressati alla causa e senza esperienza. In questi casi, l’accoglienza è diventata un business. Quando sentiamo parlare di cibo scadente e corsi di italiano assenti stiamo parlando di cooperative che speculano sulla pelle delle persone che dovrebbero tutelare e sulle spalle delle istituzioni che le finanziano.

È per queste ragioni che chiediamo con forza una rendicontazione rigorosa e degli organismi di controllo. E per  garantire una equa gestione dei fondi pubblici, oltre alla tutela della dignità e dei diritti umani.

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