Ritardi, abusi e discrezionalità delle istituzioni raccontati da uno sportello migranti
A Roma ho visitato lo sportello migranti creato dal centro sociale Villaggio Globale, l’associazione K_alma e lasciateCIEntrare. Qui ogni settimana le volontarie offrono assistenza legale a richiedenti asilo, operatori e operatrici dell’accoglienza. Oltre al monitoraggio dei Cas e alla denuncia delle cattive prassi, si occupano di persone fuori accoglienza. Mi hanno raccontato le difficoltà burocratiche che complicano una situazione già complicata. Come un gioco dell’oca pieno di imprevisti e probabilità che le cose vadano storte.
Monitoraggio Cas
La prima attività dello sportello è il controllo dei Cas, dove incontrano molte difficoltà. «Sono posti assurdi, è difficilissimo riuscire a entrare. Intervistiamo gli ospiti dei centri all’esterno». Dopo anni di monitoraggio hanno capito che la chiusura dei centri non risolve niente, meglio un supporto esterno per migliorarne le condizioni.
Si occupano anche dei “campi informali”, come l’ex fabbrica Penicillina, un’occupazione dove il disagio è forte. «Qui entriamo in contatto con gli irregolari». Consegnano loro dei biglietti da visita con il contatto Facebook dello sportello, la speranza è essere contattate. «Stiamo tentando di agevolare la nascita di un movimento di migranti». Anche qui, torna il tentativo di creare consapevolezza nei richiedenti sulla condizione che stanno vivendo.
Mi raccontano le informazioni raccolte. «Conosciamo centri di accoglienza dove si fa il corso di italiano ma non c’è nessun lavoro sul trauma vissuto da chi arriva, non c’è nessuna preparazione per la commissione di valutazione della richiesta d’asilo, non c’è nessuna autonomia nell’accesso all’assistenza sanitaria. Persone che non hanno la tessera sanitaria, non sanno andare dal medico o all’ospedale perché c’è il medico di struttura. Queste persone non hanno nessuna consapevolezza dei propri diritti. Non sanno che possono accedere all’esenzione per l’acquisto dei medicinali, o che esiste un’indennità per chi ha contratto la tubercolosi».
Mi parlano anche della condizione dei lavoratori e delle lavoratrici nei Cas. Hanno alcuni contatti all’interno, ma gli operatori non vogliono protestare. Chiedo un’opinione alle volontarie, mi rispondono che «non c’è molto da dire. Nei Cas si lavora nella totale precarietà, con contratti rinnovati ogni tre mesi e sotto costante minaccia di demansionamento e mobbing. Nell’accoglienza privata non prevale il criterio della professionalità ma della duttilità. Gli operatori devono essere manipolabili».
Il vicolo cieco del rinnovo del permesso di soggiorno
Il permesso di soggiorno è il documento di identità valido e necessario per chi proviene da un paese extracomunitario. Il permesso di soggiorno viene emesso con la richiesta d’asilo e viene rinnovato dalle questure ogni sei mesi. Grazie ad esso si possono ottenere carta d’identità e residenza, iscriversi al servizio sanitario nazionale, accedere all’istruzione e alla formazione, ottenere un contratto di lavoro. Però la prassi funziona diversamente. «Il permesso di soggiorno è un documento a tutti gli effetti, ma per ogni tipo di pratica è richiesta la carta d’identità».
Il problema riscontrato da più parti è che per il rinnovo del permesso di soggiorno le amministrazioni richiedono un documento che certifichi la dimora abituale, o residenza. Finché i e le richiedenti sono nel sistema di accoglienza tutto bene, la cooperativa certifica la dimora abituale. Ma per chi è fuori dall’accoglienza iniziano i problemi. Avere una dichiarazione di dimora abituale significa avere un contratto di affitto. Ma gli stranieri non trovano chi faccia loro un contratto, spesso sono ospiti di amici, magari vivono per strada.
Vai in prigione. Il reato (amministrativo) di clandestinità
Non avere una dichiarazione di ospitalità comporta il mancato rinnovo del permesso di soggiorno. E chi non rinnova il permesso di soggiorno diventa automaticamente irregolare sul territorio italiano. Che, ribadiamo, è un reato amministrativo che non trasforma da un momento all’altro una persona in un criminale. Ma che può favorire degli illeciti. Un esempio è il traffico delle cessioni di fabbricato e delle dichiarazioni di dimora abituale. Chi ha l’acqua alla gola spesso trova chi si propone di fare delle dichiarazioni false per diverse centinaia di euro (come ci ha già confermato l’avvocato Pierluigi Franchitto).
Le amministrazioni subordinano il rinnovo del permesso di soggiorno alla residenza. Ma è una consuetudine che non corrisponde all’applicazione della legge. «Non sempre la pubblica amministrazione in Italia rispetta la legge. Agisce con discrezionalità, a seconda dei luoghi e del personale le cose possono cambiare molto». Comunque, la certificazione della residenza potrebbe essere più semplice, senza spingere le persone all’illegalità. Nel dirlo, fanno riferimento alla Costituzione, alla Convenzione di Ginevra, al Testo Unico sull’immigrazione. «La Costituzione italiana definisce la residenza come il luogo in cui una persona svolge le proprie attività e non è legata alla dimora. Dovrebbero essere sufficienti dei documenti che comprovino le attività quotidiane di una persona, quali l’abbonamento dell’autobus, un contratto di lavoro o la tessera di un’associazione».
Le volontarie contestano la necessità di avere una residenza per ottenere il permesso di soggiorno. «Dovrebbe essere il contrario: senza permesso di soggiorno non è possibile ottenere un contratto di affitto e la residenza. In questo modo si cade in un circolo vizioso senza soluzione».
Il passaggio bloccato per i senza fissa dimora
Per garantire i diritti essenziali a chi non ha una residenza, i comuni italiani hanno stabilito un indirizzo fittizio che, per esempio, funge da recapito per le comunicazioni ufficiali (e garantisce agli italiani senza fissa dimora il diritto al voto). Secondo il sito del Comune di Roma, lo scopo è «consentire ai soggetti beneficiari di riacquistare visibilità anagrafica indispensabile oltre che per l’esercizio di molti diritti anche per l’avvio di un percorso di reinserimento sociale».
In tutti i comuni è stato quindi istituito l’indirizzo Via della Casa comunale, che nel 2002 a Roma è stato trasformato in Via Modesta Valenti, in memoria di una senzatetto deceduta per omissione di soccorso. Il numero civico dell’indirizzo cambia a seconda del municipio in cui la persona generalmente vive. Però la procedura per l’ottenimento della residenza fittizia è molto lungo e complesso e sottostà a dei criteri di discrezionalità che non è possibile prevedere. «E non è così solo a Roma, anzi. In certi comuni non esiste questa possibilità, a Trento ci vuole anche un anno per ottenerla». E proseguono: «sarebbe sufficiente poter dichiarare la residenza presso un’associazione conosciuta, o presso il proprio avvocato. Ma le amministrazioni comunali non lo consentono».
Partiamo dal via #1. La proposta del “report di soccorso”
Una procedura che lasciateCIEntrare sta sperimentando è la creazione di “report di soccorso”. «Per ogni abuso che rileviamo attiviamo una diversa procedura. Per il problema delle residenze abbiamo creato un “kit per la residenza” con tutte le informazioni utili. Stiamo dando il via anche a una campagna informativa. Inoltre, stiamo tentando di reperire tutte le informazioni relative alla residenza a livello nazionale. Oltre a informare, vogliamo mostrare la discrezionalità delle procedure in tutta Italia. Pensa che a Roma le procedure cambiano addirittura da municipio a municipio”.
La strategia delle amministrazioni
Parliamo anche del fatto che, oltre alla carta d’identità, spesso è richiesto anche il codice fiscale. Per aprire un conto in banca, per esempio, o per fare richiesta dell’esenzione per reddito. Nel 2015 è stata sancita la norma per cui i richiedenti asilo possono ottenere un codice fiscale numerico (non alfanumerico, come il nostro) grazie al quale “in teoria” possono accedere a tutti i servizi per cui è richiesto un codice fiscale. Così non è nella prassi. Con un codice di soli numeri non si può richiedere la dichiarazione ISEE per le esenzioni, non si possono aprire conti correnti e quindi non si possono percepire stipendi. Risulta così bloccato l’accesso al mercato del lavoro come al servizio sanitario.
Dopo la contestazione di numerosi enti e associazioni che si occupano di protezione internazionale, da agosto del 2017 vengono emessi codici fiscali alfanumerici anche per i e le richiedenti asilo. Ma la procedura, anche qui, non è fluida: vengono ancora stampati codici numerici e il personale delle questure che li emette non può modificare la procedura.
Partiamo dal via #2. La proposta burocratica alla burocrazia
Le volontarie mi parlano di possibili soluzioni per snellire la burocrazia e eliminare la discrezionalità. «Dovrebbe esserci un sistema unico per gli uffici che hanno a che fare con immigrati. Gli uffici immigrazione, le questure, gli uffici anagrafici e le ASL dovrebbero avere banche dati collegate e fare capo alla stessa procedura. Solo in questo modo si potrebbero risolvere gli innumerevoli abusi, errori e ritardi nel sistema». E proseguono: «allo stesso modo, tutti gli uffici con competenza nell’immigrazione dovrebbero avere del personale addetto alla mediazione culturale, per poter comunicare alle persone straniere in modo chiaro e trasparente. Il punto è che le amministrazioni non hanno intenzione di rendere trasparente il sistema».
La strategia che lo sportello sta mettendo in campo è di comunicare con le questure via pec (posta elettronica certificata). «In questo modo gli uffici sono sollecitati a rispondere, non possono scansare le nostre richieste. Chiediamo in modo chiaro le procedure da seguire per l’espletamento dei documenti dei richiedenti asilo. Ma anche questa procedura è lunga, possono rispondere anche dopo tre mesi. Tutti questi ostacoli non mettono le persone in condizione di avere dei documenti regolari».
Stai fermo un giro. Il diniego della protezione internazionale
Se la commissione non ritiene valide le ragioni della richiesta nega la protezione internazionale. I cosiddetti “diniegati” hanno 30 giorni per fare ricorso. L’avvocato deposita il ricorso e la questura emette un cedolino che equivale a un permesso di soggiorno. Questo cedolino è valido per alcune cose: «lavorare, rinnovare la tessera sanitaria, l’iscrizione all’anagrafe rimane valida. Non si può sottoscrivere un conto corrente o intestarsi una tessera telefonica. Tuttavia, per ignoranza e per discrezionalità, i richiedenti in appello faticano ad accedere ai propri diritti».
Le attiviste dello sportello però mi raccontano qualcosa di ben più grave. «Conosciamo diverse situazioni in cui la polizia preleva i ragazzi nei centri e procede all’espulsione durante i trenta giorni in cui è possibile fare ricorso. È successo al Cara di Bari (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo), alcuni ragazzi sono stati portati al Cie (Centro di Identificazione e Espulsione) della città e in quello di Palazzo San Gervasio. Chi ricorre in appello non può essere espulso, eppure ci sono ragazzi che hanno fatto ricorso e sono detenuti nei Cie».
Entrano anche nel merito dell’abolizione del secondo grado di giudizio, tra le “disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione clandestina” del decreto Minniti-Orlando. Da molti professionisti e professioniste della materia viene contestata l’illegittimità della riduzione di accesso alla giustizia per i richiedenti asilo. A ciò si aggiunge che «il ricorso in Cassazione è costosissimo, quindi non tutti possono farlo». Rimane solo la “reiterata”, cioè una seconda richiesta d’asilo. Questa «deve contenere elementi nuovi per essere accettata. I tempi sono lunghissimi perché si deve produrre nuova documentazione. In più la reiterata non prevede l’accesso all’accoglienza». Quindi si ripropone il problema dei senza fissa dimora e del business delle dichiarazioni di ospitalità.
Il limbo dei “dublinati”
Secondo il Trattato di Dublino, un accordo tra stati europei in materia di immigrazione, la richiesta d’asilo va fatta nel paese di arrivo. E’ la posizione geografica dell’Italia quindi, che ne fa paese di sbarco e di arrivo via terra, a comportare l’alto numero di richieste.
Il Trattato di Dublino comporta anche il fatto che chi fa richiesta di protezione in un determinato paese non possa muoversi liberamente nei confini europei. Nonostante ciò, sono molti quelli che cercano di raggiungere il Nord Europa, attratti da maggiori possibilità di lavoro o da parenti e amici. Abbiamo parlato della necessità di modificare il Trattato di Dublino con Franco Valenti. Alle attiviste dello sportello migranti di Roma invece chiedo cosa accade ai “dublinati” italiani. «Lo spirito, per esempio in Francia e in Germania, è di non lasciare nessuno in mezzo alla strada. Vengono portati nei centri di accoglienza. Una volta accertato che hanno fatto richiesta di asilo in Italia nel giro di qualche mese vengono rimandati indietro. Ad alcuni capita anche di essere accettati. Un ragazzo è riuscito a dimostrare l’inefficienza dell’accoglienza italiana ed è stato preso in carico in Francia. Ma non sempre è così».
Al contrario, la situazione dei “dublinati” che hanno fatto richiesta di asilo in un altro paese e vengono successivamente identificati in Italia può essere peggiore. Anche in questi casi, le attiviste conoscono casi di ragazzi che invece di essere rimandati nel paese di competenza sono stati trasferiti nei Cie per l’espulsione.
Chi controlla i controllori?
La situazione descritta è complessa, piena di contraddizioni e vicoli ciechi. L’esperienza di monitoraggio e di supporto delle attiviste dello sportello migranti del Villaggio Globale dimostra come le difficoltà nascono in prima battuta dall’inefficienza e dalla discrezionalità delle istituzioni. Un complesso di norme, e soprattutto di interpretazioni, che compongono un assurdo gioco dell’oca in cui risulta impossibile arrivare alla meta.
Ma non solo: la lentezza e gli abusi burocratici aprono a uno scenario di illegalità sempre più diffusa. Inutile lamentarsi degli immigrati in mezzo alla strada, delle derive criminali se le istituzioni sono le prime a non promuovere l’accesso alla legalità. Rimane aperta una questione comune quando si analizza un problema sociale. Le grosse responsabilità sono in cima alla piramide e, dunque, chi controlla i controllori? Per tutte queste ragioni è necessario quanto prima rivedere il sistema di accoglienza in tutti i suoi passaggi. E proporre uno scenario diverso di accoglienza e legalità, per i e le richiedenti così come per i cittadini e le cittadine.