Nel violento dibattito sui temi dell’immigrazione e dell’accoglienza, abbiamo deciso di capire come stanno realmente le cose. Vogliamo conoscere le reali proporzioni del problema, come vengono spesi i soldi che finanziano l’accoglienza. Ma anche come funziona concretamente questa accoglienza, e cosa succede a quegli uomini e a quelle donne che vengono accolti.
Il nostro viaggio nel sistema di accoglienza italiano è iniziato.
Qui sotto un assaggio di quanto vedremo.
In centro Italia c’è una cooperativa che si occupa di accoglienza migranti, una delle tante. “Belle Speranze” (il nome è di fantasia, evocativo e rassicurante come per tante cooperative, ma i fatti sono veri) si è concentrata per quasi dieci anni sulla cura dell’infanzia: una cooperativa di piccole dimensioni, ma con buoni risultati. Fino a quando, improvvisamente, inizia ad occuparsi di migranti e i suoi numeri scoppiano: decine i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), centinaia i lavoratori, i e le migranti ospiti. “Belle Speranze” si è vista chiudere tre CAS per mala gestione, ma ciò non le ha impedito di allargarsi sul territorio circostante, vincendo numerosi bandi di gara indetti da Prefetture di altre province.
Siamo riusciti a entrare all’interno di un CAS gestito da “Belle Speranze”, un tempo albergo ai margini di un paesino di montagna in cui oggi vivono una cinquantina di richiedenti asilo. Questa visita ci ha fatto rendere conto di tante cose. Prima fra tutte, i famosi alberghi a cinque stelle, che alimentano la polemica sui presunti lussi riservati ai migranti nel nostro paese, semplicemente non esistono: sotto la propaganda anti-immigrazione si nascondono enormi alberghi abbandonati in zone isolate e per nulla attrattive, piccoli appartamenti e prefabbricati fatiscenti in cui vivono ammassati giovani uomini, donne e bambini piccoli, adolescenti soli.
I centri di accoglienza devono garantire i principali bisogni delle persone che ospitano: un alloggio, cibo e vestiario, le cure mediche necessarie, i corsi volti all’integrazione. Nel centro gestito da “Belle Speranze” l’approvvigionamento di cibo e vestiario e le condizioni igieniche non raggiungono gli standard minimi, l’assistenza sanitaria e i corsi per l’integrazione sono lasciati alla buona volontà delle operatrici e degli operatori della struttura.
Quella appena descritta non è una condizione estrema ma la norma per molti centri di accoglienza sparsi sul territorio nazionale. Luoghi in cui, oltre a non essere soddisfatti i principali bisogni, talvolta vengono lesi anche i diritti fondamentali di un richiedente asilo (quali la debita formazione legale sulla propria condizione e l’espletamento delle pratiche burocratiche legate alla richiesta di protezione internazionale).
Siamo andati via dal CAS di “Belle Speranze” con molte domande in sospeso ma intenzionati a proseguire il nostro viaggio per trovare delle risposte.
Come vengono utilizzati i 35 euro al giorno per persona che ogni cooperativa ha in dotazione per gestire i servizi? Perché le Prefetture continuano ad assegnare centri di accoglienza a cooperative poco trasparenti? Perché non esistono dei modelli di rendicontazione che diano una traccia delle spese effettuate? È possibile individuare degli organismi autonomi di valutazione che sorveglino sulla buona gestione, sulla tutela della dignità e dei diritti umani? E ancora: perché, anche se i numeri dicono il contrario, si continua a parlare di emergenza e ad agire in modo emergenziale?
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